giovedì 28 febbraio 2013

"Apologo di un clown"

«Capitò, tanto tempo fa, che in un circo viaggiante in Danimarca si sviluppasse un incendio. Il direttore mandò al vicino paese il clown già abbigliato per lo spettacolo. Il clown arrivò affannato al villaggio, e supplicò i paesani di accorrere per dare una mano a spegnere l’incendio, che rischiava di propagarsi alle stesse case del paese. Ma le grida del clown furono interpretate come un astuto trucco del mestiere: lo applaudivano e ridevano fino alle lacrime. Il povero clown tentava inutilmente di spiegare che non si trattava affatto di una finzione, di un trucco, bensì di un’a-mara realtà, e li scongiurava ad andare. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate. La commedia continuò così finché il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: sicché circo e villaggio andarono entrambi distrutti dalle fiamme».

(Kierkegaard)

lunedì 18 febbraio 2013

"Calitri la nebbiosa" (Un viaggio elettorale di F. DE SANCTIS)

[Il tempo si faceva cattivo. La nebbia si levava. Il cielo era fosco. Volammo più che andammo. E giungemmo che era ancor giorno. Quella era la città nemica. Ivi erano i grandi elettore i principali avversarii. Mutare la posizione, non era possibile. Lì non e' era equivoco, e' era partito preso. Ma, poiché ci si poteva andare in carrozza, la mia andata colà era un segno di rispetto a quel paese. E poi volevo salutare Giuseppe Tozzoli, mio collega, amico e compare, il deputato uscente, ritiratosi dalla lotta con una nobilissima lettera a me indirizzata. Affido a voi la mia bandiera, scriveva, e confido che non ve la lascerete cadere di mano. Ed io avevo obbligo d'onore di tenerla alta quella bandiera. Avevo scritto al sindaco che andavo alla casa comunale. Ma il sindaco non si fece vivo. Sapevo bene che era uno dei più saldi avversarii. Pure il brav'uomo dovea comprendere, che io non m'era diretto alla sua persona, ma al rappresentante del paese, al quale chiedevo ospitalità, e che era della più elementare cortesia farmi gii onori di casa. E non mi meravigliai che avesse dimenticato di restituirmi il biglietto di visita di capo d'anno, mandato non a lui, ma al sindaco. Forse doveva avere per me qualche antipatia. E confuse la sua antipatia col suo ufficio di sindaco. Ma se non vidi il sindaco, vidi il Tozzoli, con faccia allegra come chi ti dà il benvenuto. Facevano ala. gentile pensiero del Tozzoli, i fanciulli delle scuole, e uno mi si avvicinò, e mi recitò una poesia, di cui m' è rimasto che invocavano me come angiolo tutelare del paese. Ringraziai, e pensai: se i padri qui rassomigliassero un po' più a' figli, la cosa sarebbe bella e fatta. Vidi Calitri in un mal momento. La strada era una fangaia; ci si vedeva poco, e un freddo acuto mi metteva i brividi. A sinistra era una specie di torrione oscuro, che pareva mi volesse bombardare; a destra una fìtta nebbia involveva tutto; l'aria era nevosa, e il cielo grigio tristamente monotono. Salii a una gentile piazzetta, e passando sotto gii sguardi curiosi di molte donne ferme lì sulle botteghe, volsi a mancina in una specie di grotta sudicia che voleva essere un porticato, e giunsi in casa Tozzoli. Mi stava in capo che Calitri doveva essere una grande città e molto ricca; i Berrillo, i Zampaglione, i Tozzoli erano i nomi grossi della mia fanciullezza, e mi pareva che la città dovesse corrispondere alla grandezza di quei nomi. A quel ragguaglio la mi parve cosa meschina. Ciascuno fa il luogo dove si trova, a sua imagine. O come questi cittadini, che dicono così ricchi, non hanno avuto ambizione di trasformare la loro città e farla degna dimora di loro signorie? Non conoscevo le case, ma quelle strade erano impresentabili, e danno del paese una cattiva impressione a chi giunge nuovo; le strade sono pel paese quello che il vestire è per l'uomo. A tavola, cercai con garbo investigare le condizioni morali del paese, ma ne cavai poco. Frizzi, sarcasmi, ironie s' incrociavano de' presenti contro gli assenti; c'era lì del guelfo e del ghibellino, lotta di famiglie lotta d'interessi, passioni vive e dense, col nuovo alimento che viene da' piccoli centri, dove non si pensa che a quello solo.]

[La mattina mi levai tardi. Sentivo già la stanchezza di quella vita in moto continuo, con tante emozioni. Stetti raccolto la mia mezz'oretta. Poi uscii. Trovai nel salotto molta gente. Mi fu presentato Berrillo. Il sindaco? diss'io, stendendogli la mano. No, il sindaco e prete, dissero. Guardai quel Berrillo, aria distinta e civilissima. E lo ringraziai della visita. La condotta del sindaco m'aveva così male impressionato, ch'ero divenuto sensitivo ad ogni menoma gentilezza. Domandai dell'arciprete; ch' era come dire: perché non viene a vedermi? Seppi ch'era malato, e mi rimprovero di non essere andato io da lui. Ma in quella confusione mi scappò. Preti, uno, o due.E pensai che non dovevo essere appo loro in odore di santità. Come mi avranno dipinto qui! Ma, mi sentiranno. E mi avviavo già alla casa comunale, quando mi fu porta una lettera del sindaco. Diceva così: «Se lei vuole venire nella casa comunale, padronissimo, ma la prevengo che non permetterò che vi si tengano riunioni elettorali politiche». Lessi e rilessi, e tutti mi guardavano, come volessero cogliere nella espressione del mio viso il senso della lettera. Il sindaco lha fatta grossa, diceva il mio viso oscuro e contratto. E senza più, lessi ad alta voce quella lettera modello. Non è che questo? disse uno. Venga, andremo in casa dell'assessore. E io m'avviai macchinalmente con gli altri.
Questa prontezza di risposta m'era indizio che gli amici avevano qualche vento di quella strana risoluzione, e avevano tutto apparecchiato in altra stanza. Vidi per via gente aggruppata, che mi guardavano, in atto rispettoso, ma freddo. Entrai, trovai il salotto già pieno, e nella stanza attigua affollati i fanciulli delle scuole, ingegnosa idea per far numero e palliarmi l'assenza degli avversarli. Ma la cattiva impressione l'avevo già ricevuta in Lacedonia, ed era già in parte scontata, sicché mi parve cosa quasi regolare. Indovinavo quali passioni dovevano impedire quegli abitanti di trovarsi uniti nello stesso luogo. E cominciai subito. «Io vengo qui con un cielo fosco, come sono i vostri animi. E non vengo già ad accattar voti, ad acquistarmi aderenti: siete voi che dovete conquistare me. Deputato di altro collegio a cui mi lega lunga e salda comunanza di pensieri e di sentimenti, prometto di esser vostro, e la condizione è in vostra mano: unitevi tutti, rimanga il mio nome alto sulle vostre divisioni locali. Io ve lo scrissi già; l'equivoco non era possibile qui. Io scrissi: se tutta intera la mia vita spesa a illustrare la patria non vale a dare al mio nome tale autorità, che stia fuori delle vostre passioni locali, a che giova il mio nome? Gittatelo nell'Ofanto, e dimenticatemi per sempre». Questo era il significato della mia elezione, così solo potevo essere utile, questo sentì quel giovinetto, che m' invocava ne' suoi versi, e diceva: siate per noi l'angiolo della Pace. E non voglia Dio che un dì si abbia a dire che qui i fanciulli mi compresero meglio de' padri loro co' capelli bianchi. Del resto, questo è il progresso; i giovani saranno migliori de' padri; anche per Calitri verrà il progresso. Guardate lì il sole, che si eleva e caccia e abbassa le nebbie; io saluto il sole di Calitri, che dissiperà le vostre nebbie, e saluto questi giovinetti, la nuova Calitri, sede di civiltà e di gentilezza. Non mancarono gli applausi, e ciò che mi piacque più colsi una commozione, che in alcuni giunse fino alla lacrima. In verità, io non spargeva su quel paese rose e fiori. Le punture erano delicatissime, ma erano punture. E quello averle sentite era già un avviamento alla nuova Calitri. La sera dovevo essere in Andretta. E vuol dire che dovevo rifare la via e poi farne quasi altrettanto. Mi si facea fretta, e anche io avevo fretta. Sicché poco poi ci rimettemmo in cammino. Con molto seguito di amici attraversai il paese, guardato questa volta dal popolo con maggiore espansione. Notai nell'aria e nei modi una serietà che mi fece buona impressione. Alcuni popolani stavano lì ritti sulla piazza con una gravità di senatori romani. Dev'essere un popolo tenace e lavoratore, a testa alta, e ne augurai bene. Mi dissero che i carabinieri, volendo fare gli onori ai deputato, si offrivano ad raccompagnarmi. Del pensiero gentile mi compiacqui e dissi: « deputato, tengo ad onore l'accompagnamento de' reali carabinieri; ma qui sono candidato, e non voglio nulla di mezzo tra me e i miei elettori. Vogliate loro esprimere i miei ringraziamenti ». E feci in mente un curioso paragone tra quel sindaco che non rispettò in me né la mia persona, né il mio grado, e non mi tenne degno di alcuno onore, e quei carabinieri così civili, che ebbero un pensiero tanto delicato. Scesi sulla strada, dove ci attendevano le carrozze, mi volsi a guardare la nemica città, e rividi quel torrione fatto oscuro da' secoli, che mi guardava minaccioso, quasi volesse dirmi: qui sarai sconfitto.
Ed ecco un corriere tutto anelante, che ci annuncia l'arrivo di parecchi elettori di Sant'Andrea, i quali, avuta la mia lettera, venivano a farmi visita. Giunsero poco poi, affannati e ridenti. Vidi facce espansive e sincere. Quella forava gente si sentiva felice di esser giunta a tempo, venuta di così lontano, e di vedermi e di stringer la mia mano. E mi riferirono che Sant'Andrea era tutta per me, e quasi tutta la storica Conza, com'io l'avevo chiamata, e in gran parte anche Teora. E io ebbi un momento di superbia, e mi rivolsi a quel torrione minaccioso, e dissi: Calitri mi vuol bombardare, e sarà bombardata, e la nostra vittoria sarà vittoria sua, sarà la prima pagina della nuova Calitri. Poi risi io stesso di quella bravata; e fattomisi cerchio intorno, mentre io prometteva una visita quandochessia al mandamento di Teora, ecco venire a corsa un altro, e portarmi i biglietti di visita dei signori Zampaglione, i ricchissimi di quel paese. E dire poi che Calitri non fu gentile. Anche per Calitri verrà il progresso. E forse un giorno qualche fortunato mortale scriverà un nuovo capitolo, intitolato: il Sole di Calitri.]


giovedì 14 febbraio 2013

"Bisaccia la gentile" (Un viaggio elettorale di F. DE SANCTIS)

[Don Pietro, che aveva avuto il delicato pensiero di venirmi incontro sino in Lacedonia, era un eccellente compagnia. Veggendomi taciturno, indovinò la mia preoccupazione, e vi tirò su il discorso. Non vi dee spiacer troppo, disse, che qui incontriate tanta resistenza. Un lavoro preparato da tanto tempo non si può disfare un un' ora; le passioni sono accese, e' è molta tensione negli spiriti. Ci vuole il tempo, e voi solo potete riuscire a conciliare gli animi se, accettando la deputazione, volete fare questo bene al collegio. Don Pietro parlava con quel tono naturale e sincero che ti guadagna subito. Mi apersi tutto con lui. Non ricuserò, dissi, se mi persuado di poterlo fare questo bene. Ciò che mi spiace, non è la resistenza, ma la rozzezza. La resistenza la capisco, e me l'aspettavo; la rozzezza m'è cosa nuova». 
«Pure vi dee piacere non dico la gentilezza, ma tante prove di devozione e di affetto che vi danno i vostri amici. Io lo guardai commosso. Egli voleva dirmi che un sol tratto d'amicizia basta a far dimenticare molti atti di villania.
Mi dava così una lezione con infinito garbo. Del resto, aggiunse, a Bisaccia avrete un' accoglienza meno lontana dalla vostra aspettazione.]

[Quell'accoglienza lieta e schietta, che mi fece il popolo di Bisaccia, come si fa ad amico desiderato e atteso, m'ispirava una fiducia piena. Sentivo come fossi in mezzo alla mia famiglia.]

[Mi dissero tante cose amabili, e nessuno parlò a me di elezioni, né io loro. Tutti promisero di venirmi a sentire. E Fabio Rollo? mi uscì a un tratto.
Quel Fabio era la mia idea fissa. Mi dicevano che era uno de' capi più risoluti di parte contraria. E avevo inteso a dire che era un giovane distintissimo. Mi aveva fatta molta pena a vedere il suo nome tra quelli dei membri dell'ufficio centrale, che nel primo ballottaggio avevano proclamato eletto il mio competitore che era in grande minoranza, e le ragioni addotte mi parevano cavilli di avvocatuzzo, a' quali non vedevo come dovesse associarsi lui. Sola scusa era la passione. E questo appunto mi trafiggeva, a vedermi avversario e così appassionato quell'uomo lì. Se i giovani e i giovani intelligenti e generosi non sono essi almeno con me, a chi ricorro io? Ed ecco don Pietro presentarmi Fabio Rollo. Mi porse la mano con una sicurezza che mi piacque. Non era nella faccia niente di quel sorriso abituale e cerimonioso che hanno le facce sospette. Stava lì, semplice e naturale, come chi non ha niente a nascondere, niente a mostrare. Me lo dicevano un telegrafista. Ma c'era lì dentro ben altra stoffa. Venne l'ora del desinare, e la conversazione si prolungò molto tempo dopo il pranzo. Mi sentivo così bene in quel cerchio allegro di amici. Fabio prese subito il suo posto, divenne il protagonista. Spronato da me, raccontò qualche episodio delle sue vita.]

[Mi si parlò del castello di Bisaccia, dove si diceva era stato il Tasso, e mi promisero di mostrarmi la stanza dove aveva dimorato.]

[Il dì appresso, trovai tutto presto. Mi presi la solita mezz'oretta di raccoglimento, e diritto alla casa comunale. Sala piena. C'era lì, mi dissero, tutta Bisaccia. Girai un poco. Vidi facce ridenti, benevole. Ricuperai il mio buon umore, e cominciai subito: «Debbo innanzi tutto ringraziarvi di vedervi tutti qui. Un atto di cortesia, che fa onore a questo paese, il quale d'ora innanzi chiamerò Bisaccia la gentile.]

[Io non domando a voi i voti, ma domando a tutti la loro stima e la loro amicizia. Venite qui, Fabio Rollo; venite qui e stringete la mia mano, mai mano più pura avrete stretta in vostra vita». Fabio, che era lì in piedi dietro una siepe di uditori, non esitò, non ebbe il menomo imbarazzo. Venne diretto a me, e mi strinse la mano, e io sentii che acquistavo un amico, di quelli amiciche non ti dimenticano mai. La commozione era generale; gli applausi si prolungavano: cosa non avrei fatto io allora per i miei elettori? Promisi che sarei il loro deputato. L'esempio di Bisaccia, conchiusi, m'inspira fiducia che mi acquisterò col tempo l'amicizia anche di quelli che rimangono tra' miei avversarii. La gioia era dipinta su tutti i volti. E anche sul mio. Mi sentivo soddisfatto, ricompensato abbastanza dal mio viaggio.]

[Poi mi condussero al castello, e mi mostrarono la stanza del Tasso. Chi diceva: è questa, e chi diceva: no, è quella. Mi fermai in una che aveva una vista infinita di selve e di monti e di neve sotto un cielo grigio. Povero Tasso! pensai, anche nella tua anima il cielo era fatto grigio. Che vale la bella vista, quando entro è scuro? Stetti un po' affacciato. Vedevo certi ultimi monti così sfumati, così fluttuanti, che parevano nuvole, e mi davano Vimpressione di quell'interminabile, di quel lontano lontano che spaventa, e rimasi un pezzo balordo, e non indovinavo l'uscita. Volli partire subito. Temevo il tempo non si guastasse. Ed ecco giungermi questo telegramma: «non partite; debbo comunicarvi cose importanti». Che sarà? che non sarà? mormoravano. Sorrisi, e dissi: tal cosa e importante per uno, che è frivola per l'altro. L'importanza è secondo ì cervelli. Non c'è tempo a perdere, il tempo si metteva a pioggia. Partii.]

[Addio, Bisaccia, dove vidi qualche strada netta, e dove non vidi nessun cencioso, che dimandasse limosina. Avevi anche tu i tuoi cenci, le tue miserie e le tue discordie. Ma le occultasti come ne' dì di festa, e mi accogliesti lieta e cortese. Molti gentili pensieri io colsi in te. Quel garbo nella conversazione, quell'accordo de' visi, se non de' cuori, quella semplicità e naturalezza di accoglienza, quella nessuna giustificazione e nessuna vanteria, anzi quel non parlarmi punto della elezione, e quel fare gli onori di casa all’ospite tutti; quasi Bisaccia fosse stata una casa sola, oh! nessun pensiero gentile trovò freddo il mio cuore. Addio, Bisaccia la gentile.]